Meat-sounding per le carni vegetali: per tutelare il comparto la norma deve essere abrogata
Le aziende plant-based intervistate dal Good Food Institute Europe confermano che le restrizioni, inattuate ed inapplicabili, penalizzano aziende e consumatori
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1 marzo 2024

Oggi, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare il Ministro Lollobrigida ha confermato che è in corso una revisione de divieto di utilizzare termini legati al mondo della carne convenzionale per i prodotti vegetali.
La dichiarazione fa seguito a una recente intervista, in cui il Ministro aveva menzionato una possibile revoca del provvedimento, se questo avesse finito con il danneggiare le imprese del settore.
Un’indagine condotta dal Good Food Institute Europe che ha coinvolto aziende del settore, ha evidenziato che questo sta già accadendo. Dai dati preliminari è emerso che le aziende lamentano la necessità di re-branding e la perdita di capitale associata, oltre agli impatti ambientali negativi. In particolari i primi risultati suggeriscono che:
- Le aziende plant-based utilizzano per i loro prodotti termini comunemente usati nel settore della carne animale, come affettato, cotoletta, straccetti, trancio, oppure nomi legati a tradizioni culinarie di altri Paesi (‘kebab’), evidenziando chiaramente sulla confezione la natura vegetale del prodotto, supportata da claim come “100% vegetale”, “vegano”, “veg”. Le indagini sui consumatori condotte dalle aziende stesse rivelano la totale consapevolezza dell’acquisto, e che non ci sono segnalazioni di confusione sui termini utilizzati.
- I termini “meat-sounding” sono considerati cruciali dalle aziende per aiutare i consumatori a comprendere le caratteristiche e l’utilizzo dei prodotti vegetali, facilitando la familiarità e spiegando come utilizzarli dall’acquisto alla tavola. Riportare in etichetta le terminologie di formato e di riferimento alla proteina animale, di cui il prodotto in questione vuole rappresentare l’alternativa vegetale, permettono al consumatore di comprendere come tale prodotto possa essere utilizzato in cucina.
- La conformità al divieto comporterebbe costi significativi per le aziende, che a seconda delle dimensioni del mercato possono arrivare a decine di migliaia di euro, con la necessità di rinnovare il branding, sviluppare nuove grafiche e smaltire i vecchi packaging, con conseguenti impatti negativi sull’ambiente.
In attesa dei decreti con cui il Ministero dell’Agricoltura adotterà l’elenco delle denominazioni vietate, la norma resta ad oggi inattuata. Inoltre, in seguito alla violazione di un obbligo procedurale relativo alla direttiva TRIS dell’Unione Europea, la legge risulta viziata e laddove attuata potrebbe essere dichiarata inapplicabile da un tribunale nazionale, come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Francesca Gallelli, Consulente per gli Affari Pubblici del Good Food Institute Europe, ha dichiarato: “La volontà del Ministero di revisionare la norma è una notizia molto positiva. È evidente che il divieto di meat sounding danneggia direttamente le aziende italiane, che sarebbero costrette ad adeguarsi a una normativa esposta al rischio di inapplicabilità. Per aiutare i consumatori a fare scelte informate e tutelare le aziende italiane, che si troverebbero a fronteggiare inutilmente costi di re-branding e smaltimento delle vecchie etichette, auspichiamo che la norma venga abrogata.”
L’Italia rappresenta il terzo mercato europeo per i prodotti a base vegetale, con vendite in crescita del 21% tra il 2020 e il 2022 e un valore stimato di 680,9 milioni di euro. Le ricerche di mercato inoltre rivelano che oltre la metà di chi acquista carne plant-based diventa consumatore abituale, sfatando il mito che la terminologia possa in qualche modo trarre in inganno i consumatori.